IL Sistema Nazionale di Qualifiche degli Operatori Sportivi (SNAQ)

A cura di Andrea Argiolas

Il prof. Andrea Argiolas è un nome notissimo nel mondo dello sport. Dal 1976 al 2020 è stato docente nella scuola secondaria di primo grado. Atleta e poi allenatore di Canoa-Kayak dal 1978, è stato dirigente sportivo inizialmente in ambito regionale. Terminato l’ISEF nel 1979, ha poi completato il suo percorso con la laurea magistrale in Scienze e Tecniche dello Sport. Dal 2005 al 2016 è stato consigliere federale nazionale Fick e responsabile del Centro Studi, Formazione e Ricerca della medesima federazione. Dal 2012 vicepresidente federale, dal 2014 al 2016 coordinatore della direzione tecnica nazionale. Il suo contributo, evidentemente, è per noi estremamente prezioso.

Andrea Argiola mostra un numero della Rivista del CentroStudi della FICK

Mi sono occupato di formazione per “sport e scuola”. L’approccio sistemico ha caratterizzato le mie idee, le mie proposte e le mie azioni: avere una visione integrata di bisogni e risorse favorisce le soluzioni e ottimizza i costi.

Tra le poche certezze, ho anche la convinzione che, senza stravolgere il modello italiano, una visione globale e integrata tra Scuola e organizzazione sportiva (CONI e/o, da ora, Ministero dello Sport) darebbe un fondamentale impulso allo sviluppo della pratica sportiva di base e, conseguentemente, anche dell’alto livello.

Storicamente il modello sportivo italiano fonda le sue radici nell’associazionismo sportivo, mentre nelle discipline cosiddette dilettantistiche le attività di vertice sono quasi totalmente appannaggio dei Corpi civili e militari dello Stato. Un mix di privato (terzo settore) e pubblico finora capace di garantire una continuità di prestazioni di tutto rispetto, sia in chiave olimpica che mondiale, molto meno sul piano del diritto allo sport per tutti. Trattasi di un’organizzazione, mediata dalle federazioni sportive e CONI non esente da lacune, farraginosa, caratterizzata da un elevato dispendio di risorse e, soprattutto, poco capace di assolvere i compiti pedagogici e culturali che lo sport richiama. Una caratteristica, quella dei militari sopra accennata, che ricorda lo sport di Stato d’oltrecortina, un autentico pezzo di modernariato. Certo non siamo l’unico Paese occidentale a supportare in questo modo lo sport, ma avere ben otto Enti (con o senza stellette), spesso in concorrenza tra loro, credo sia un primato, tutto nostrano, del quale non andare fieri.

Gli anni dell’agonismo

Ciononostante, considerata la straordinaria presenza statale, le attività motorie e sportive scolastiche “godono” di pessima salute: siamo ancora il Paese europeo con il minor numero di ore settimanali di educazione fisica/motoria e fino al 2021/22 esclusivamente nella scuola secondaria. Nella Primaria, solo a partire da quest’anno scolastico, si sta correndo ai ripari con il progressivo (si parte dalla quinta classe) inserimento di luareati specializzati nel team docente. Non parliamo della scuola dell’Infanzia, perché là dove tutto dovrebbe cominciare, siamo ancora in alto mare o a progetti estemporanei. Tutto ciò in un contesto che vede l’Italia e soprattutto il suo sud primeggiare nelle classifiche di dispersione, insuccesso e abbandono scolastico. Non può essere un caso.

Recentemente, parliamo della scorsa legislatura, si è registrato un notevole attivismo della politica verso lo sport. Giorgetti con l’istituzione di Sport e Salute, ha sostanzialmente chiuso i rubinetti al CONI e spezzato il cordone ombelicale, “contributi”, tra Coni e Federazioni sportive. Se Malagò ha mal digerito la diminutio imposta dal Sottosegretario con delega allo sport del primo Governo Conte, tanto da segnalare al CIO la presunta violazione d’autonomia, altrettanto indigesti sono stati gli interventi del Ministro dello Sport (Governo Conte 2) Spadafora di disciplinare l’intero movimento sportivo, compreso il tentativo di porre in essere il limite di due mandati anche per la presidenza del Comitato Olimpico, tentativi andati a vuoto.

L’apice dell’interventismo statale in materia di sport e dintorni si è registrato con il Decreto legislativo del 28 febbraio 2021, n. 36, in attuazione dell’articolo 5 della legge 8 agosto 2019, n. 86, recante il riordino e la riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo. Un vero e proprio vademecum per inquadrare, disciplinare e valorizzare l’attività sportiva e motoria, riconoscendone il valore culturale, educativo e sociale, nonché garantire il libero accesso in tutte le forme, manifestazioni e luoghi in cui tali attività si esercitano: “sia nelle persone sane sia nelle persone affette da patologie”. Così recita la legge, io avrei scritto: comprese le persone con disabilità (sic!). Ovviamente, per chi scrive non è questo il problema.

A mio avviso il problema è proprio originale, sì proprio come il peccato, giacché nasce da una remota visione separata degli interventi. In particolare, dalla dicotomia tra attività motoria e sportiva: la prima demandata alla scuola e la seconda al sistema società sportive – Federazioni sportive o enti equipollenti – Gruppi Sportivi Civili e Militari – CONI o CIP. Sebbene qualche tentativo di introdurre lo sport nella scuola – penso ai programmi ministeriali, ai Giochi della Gioventù, a quelli studenteschi e, proprio in forza dell’art.2 della legge 8 agosto 2019, n.86, all’istituzione dei Centri Sportivi Scolastici – storicamente e culturalmente lo Stato ha volutamente depotenziato l’avviamento alla pratica sportiva nell’agenzia che più di tutte doveva promuoverla, la Scuola. Come accennato, il modello italiano privilegia l’associazionismo sportivo e né ora né mai questo primato è stato posto in discussione, anzi viene continuamente alimentato e sovvenzionato. Al contrario, lo sport e le attività motorie nelle istituzioni scolastiche e universitarie sono la Cenerentola della Pubblica istruzione.

Rispetto a questa rigida, assurda e ingiusta separazione, la mia idea, quella che ogniqualvolta me n’è stata data l’opportunità ho cercato di attuare, è spuria. Una contaminazione profonda tra sport e scuola, realizzata da docente e sul campo, quando, sfruttando al massimo le risorse a disposizione – ore di gruppo sportivo scolastico, strutture scolastiche e delle società sportive (prevalentemente quelle di un Centro Universitario Sportivo) – ho avviato allo sport e specialmente alla Canoa Kayak, diverse centinaia di giovani.

Poi da dirigente federale, responsabile della formazione, ho lavorato affinché il riconoscimento delle qualifiche tecniche fosse agevolato ai laureati in scienze motorie, titoli equipollenti o superiori. All’interno della Guida alla Formazione della Federazione Italiana Canoa Kayak, della quale ho siglato diverse edizioni dal 2005 al 2016, ho fatto in modo che fossero previsti tutti i meccanismi utili al suddetto riconoscimento per ognuno dei 3 livelli tecnici FICK, in piena conformità a quanto previsto dalla SNaQ (Sistema Nazionale delle Qualifiche tecniche, riconosciuto dal CONI). Tutto ciò si è potuto realizzare, stipulando accordi con le Università, affinché includessero insegnamenti specifici anche finalizzati al conseguimento delle qualifiche oltreché di crediti CFU, o prevedendo in tal senso la valorizzazione di lavori individuali dei singoli studenti (tesi di laurea o di master/dottorato ecc.) solitamente atleti o tecnici già inseriti nel processo tecnico formativo. Un sistema certamente non esclusivo, ma all’avanguardia e capace di creare interazioni positive: dallo sport verso il mondo accademico e viceversa. Un rapporto che ha promanato effetti anche sul piano agonistico di alto livello: la ricerca, che sta alla base dello sport moderno, non è solo appannaggio dei centri di alta specializzazione agonistica ma nasce e si sviluppa all’interno dell’università.

Viste tutte le disposizioni sopra richiamate, e segnatamente il D. lgs. 28 febbraio 2021 n.36, non condivido la visione parcellizzata tra qualifiche tecniche sportive e le diverse professionalità del chinesiologo. Le differenze quasi insormontabili sarebbero ovviamente tutte in favore di quest’ultimo: per formare un tecnico di secondo livello (qualifica minima per poter operare in autonomia), basta un diploma superiore, qualche decina di ore di formazione, un tirocinio e un anno di esperienza nel livello precedente (il primo); un laureato in scienze motorie deve affrontare tre anni di corso, una trentina di esami, tirocinio e tesi finale. Appare evidente che non possono esserci termini di paragone.

In base alla normativa vigente, le lauree in scienze motorie non sono titolo d’elezione per operare come tecnico sportivo, neppure per gli specializzati in Scienza e Tecnica dello Sport come neanche quelli in Preventiva e Adattata sono espressamente abilitati a operare con gli atleti disabili. Né sono ipotizzati o, tantomeno, indicati alle Federazioni sportive o enti assimilati – unici soggetti in grado di rilasciare qualifiche fino al terzo livello, il quarto lo riconosce il CONI/Sport e Salute attraverso la Scuola dello Sport – percorsi agevolati per favorire l’inserimento dei laureati negli albi federali.

Si tratta di una visione miope incapace di inquadrare insieme sport e scuola. Lo Stato italiano fatica ancora a portare degnamente dentro la sua più importante agenzia educativa i valori positivi che lo sport storicamente e naturalmente veicola. Dopo averci messo un secolo per laureare gli specialisti di motricità e sport, ora che fa, li mette in naftalina?