Tra i tanti aspetti legati alla vicenda dei 26 atleti dell’atletica leggera deferiti dalla Procura antidoping, colpisce sopratutto la linea, reciprocamente solidale, assunta dalla Fidal e dal Coni. Le distanze da chi ha sbagliato i vertici dello sport le prendono solo quando l’atleta, come è successo in passato per Alex Schwazer, è irrimediabilmente compromesso. In questa occasione, tuttavia, potrebbe anche non essere un ragionamento del tutto sbagliato se, a monte, ci fosse una chiara ed inequivocabile assunzione di responsabilità, trapela invece un insopportabile vittimismo. Nessuno dei massimi dirigenti ha pensato che in questo modo il danno di immagine si estende come per effetto alone. È sostenibile la tesi che eludere un controllo è una colpa veniale? Possibile che sia così difficile accettare le regole del gioco per una categoria non certo di “sfigati” quali sono i nostri atleti di vertice? Sono così tanti e stressanti, oltre l’allenamento, i compiti quotidiani che devono assolvere? Ricordiamo che si tratta di ragazzi e ragazze che figurano nell’organigramma delle nostre forze armate, sono cioè stipendiati dallo stato italiano per allenarsi a casa loro, ovvero per fare ciò che che gli è sempre piaciuto fare e che i loro coetanei con i quali madre natura è stata meno generosa fanno dovendo conciliare gli impegni sportivi con quelli di studio e di lavoro. Chiedere a costoro di garantire la reperibilità e di non eludere i controlli è davvero un onere così insostenibile? Facciamo un banale esempio tratto dal mondo scolastico, e quindi comprensibile a tutti: un alunno che si assenta strategicamente per evitare le verifiche può anche sostenere di aver studiato e di meritare un voto alto, nessuno può smentirlo, ma senza verifiche il suo destino finale è segnato, sostenere interrogazioni e consegnare i compiti scritti è un suo dovere.
Se gli atleti che hanno reagito con stizza alla loro inclusione in questa lista di “cattivi” sono sempre stati puliti come affermano e noi non ne dubitiamo, può essere comprensibile la loro reazione. Comprensibile non significa condivisibile e neppure è accettabile scaricare su altri le proprie colpe, dai Dirigenti, dai Tecnici e dagli Atleti ci aspettiamo ben altro, i tempi son cambiati, tira un’aria nuova, vogliamo avere certezze. “Accountability” è un termine inglese diventato d’uso comune anche in Italia, vuol dire render conto del proprio operato, riguarda tutti, perché non dovrebbe riguardare il mondo dello sport? “Così fan tutti” è un pianto postumo patetico e inopportuno. Vogliamo gioire di risultati veri avendo la certezza che sono stati raggiunti onestamente, ma vogliamo anche la certezza che chiunque veste la maglia azzurra, anche se taglia il traguardo per ultimo, sia arrivato sin li grazie al lavoro sul campo. Redigere un proprio codice etico è un atto meritevole ma occorre far rispettare anche i codici scritti da altri e comuni a tutte le discipline sportive. Da operatori scolastici ci sentiamo di ripetere forte e chiaro un concetto che ci sta molto a cuore: le regole si rispettano sempre senza sconti per nessuno, è quel che tentiamo di spiegare nel quotidiano ai nostri alunni, lo sport dia l’esempio ….. finalmente.
Fr Ma